lunedì 1 aprile 2013

Cinque mesi di Commissione Statuto a Roma Tre

Gli inizi e le questioni di metodo

Adesso che la bozza del nuovo Statuto di Roma Tre è stata trasmessa al Ministero per il parere previsto dalla Legge 240/2010, ritengo opportuno, nella mia veste di componente della Commissione che ha predisposto il nuovo Statuto, fare un bilancio dei lavori, con qualche commento sul percorso che ha portato a varare il testo definitivo. 



I lavori della “Commissione Statuto” sono iniziati il 31 marzo 2011 e si sono conclusi il 20 ottobre, dopo l’esame delle correzioni suggerite dal Senato alla prima bozza votata il 19 luglio.
Anzitutto, va ricordato che gli organi di governo hanno conferito alle attuali Facoltà il maggior potere di scelta dei membri dei docenti che dovevano entrare a far parte della Commissione, anche se poi, con una votazione, Senato Accademico e Consiglio di Amministrazione hanno effettuato la scelta definitiva. Questo tipo di genesi della Commissione non è stato affatto privo di conseguenze e molte delle decisioni prese riflettono gli interessi e le preoccupazioni delle singole facoltà.
Fin dalla prima riunione sono emersi punti di vista diversi su come impostare i lavori: da una parte, c’è stata una tendenza delle autorità dell’Ateneo a depotenziare (o forse solo a non potenziare troppo) l’organo voluto dalla Legge 240 per stendere il nuovo Statuto; dall’altra, una buona parte dei membri della Commissione ha invece avvertito come la Legge vedesse nella Commissione, non a caso composta da membri al di fuori degli organi di governo dell’Ateneo (con la sola eccezione del Rettore e degli studenti), un vero e proprio organo decisionale con il compito di sottoporre un testo al Senato perché lo adottasse. A riprova di questo iniziale confronto sono emerse le seguenti questioni, apparentemente formali ma in realtà di sostanza.
La prima è stata una certa insistenza (in documenti ufficiali e in interventi di autorevoli membri del Senato) sulla denominazione di “Commissione istruttoria”, che collocava il ruolo della Commissione al livello delle tante commissioni istruttorie a cui ogni organo collegiale dà vita in occasione di decisioni particolarmente delicate: la Commissione istruttoria non decide, ma fa, appunto, un lavoro istruttorio di preparazione alla decisione che poi l’organo preposto dovrà assumere. Non era questa la volontà del legislatore (ripeto: le commissioni per lo Statuto sono volute dalla Legge 240/2010 e istituite con decreto rettorale, quindi nulla hanno a che vedere con le commissioni istruttorie). La verità veniva ristabilita ufficialmente dopo una lettera inviata il 16 aprile al Rettore da alcuni componenti della Commissione (tra i quali il sottoscritto), nella quale si lamentava peraltro anche un accesso inspiegabilmente riservato (e non aperto a tutti) dei verbali delle riunioni. Malgrado la rettifica della denominazione, l’inizio non era dei più promettenti.
La seconda questione, da me sollevata verbalmente già nella prima riunione, ha riguardato la presenza di un Ufficio di Presidenza composto da 8 persone, oltre al Rettore nella sua qualità di membro effettivo e di Presidente della Commissione: il Prorettore Morganti, il Direttore amministrativo, il prof. Guido Corso in qualità di esperto e 5 funzionari come “supporto tecnico-amministrativo”. Due gli aspetti sollevati. Il primo era il fatto singolare che una Commissione composta di quindici membri dovesse avvalersi di un Ufficio di Presidenza e di supporto presente alle riunioni così affollato. Il secondo metteva in rilievo come, con un tale Ufficio di Presidenza, di fatto partecipassero ai lavori anche membri di organi centrali dell’Ateneo la cui presenza non era prevista dalla Legge 240/2010. Sul punto, però, la risposta del Rettore è stata ferma nel motivare la necessità di tale struttura, che pertanto è rimasta, accettata alla fine dalla stessa Commissione pur con qualche dubbio di legittimità.
La terza questione, infine, ha riguardato la proposta da parte del Rettore di organizzare i lavori dividendo la Commissione in due sottogruppi che avrebbero lavorato parallelamente: uno sulle strutture (dipartimenti, strutture di raccordo, ecc.), l’altro sugli organi centrali (Senato, Consiglio di amministrazione, ecc.). L’obiezione fatta da molti componenti è stata che il lavoro non era divisibile perché era impensabile trattare delle une senza, al contempo, occuparsi delle altre. Fortunatamente la proposta non ha poi avuto seguito, anche perché una frammentazione della Commissione e la riduzione, così, delle riunioni plenarie ne avrebbe di fatto limitato le funzioni.


Gli snodi più controversi

Una volta superate le questioni di metodo, la Commissione è entrata nel vivo di quelle di merito. Le maggiori discussioni hanno riguardato il rapporto dipartimenti-strutture di raccordo, le modalità di elezione del Consiglio di Amministrazione, le aree, la mobilità dei docenti e le disposizioni transitorie e finali.
Il rapporto tra dipartimenti e strutture di raccordo appare subito il nucleo fondante di tutta la riforma, anche perché introduce forse le modifiche più sostanziali dell’attuale fisionomia dell’Ateneo. Questo – è bene ricordarlo – è attualmente composto da 32 dipartimenti, 8 facoltà e oltre 900 docenti. Dei 32 dipartimenti, ben 21 sono al di sotto di 35 membri (dei quali 6 inferiori a 15). Vi sono poi 17 corsi di laurea e 28 lauree magistrali. La Legge fissa un numero minimo di docenti a 35 e incentra sui dipartimenti tutte le funzioni, sia didattiche che scientifiche. Fin dall’inizio, il confronto è stato tra chi voleva applicare la legge alla lettera (dipartimenti forti e strutture di raccordo deboli) e chi avrebbe voluto ribaltare questo rapporto, cercando di costruire strutture di raccordo che, di fatto, rappresentassero la continuazione delle vecchie facoltà. Su questo punto, facendosi forte della Legge, la Commissione ha svolto un importante ruolo di convincimento anche nei confronti di molti membri del Senato, preoccupati su come traghettare nelle nuove strutture la gestione della didattica.
Altro tema “caldo” è stato quello delle modalità di elezione del CdA. Appare subito chiaro che tale organo potrebbe scaturire da tre diverse modalità di formazione. La prima è su designazione del Rettore, la seconda su elezione indiretta ad opera del Senato (ed è questa la proposta dell’Ufficio di Presidenza) e la terza per elezione diretta da parte del corpo elettorale. Ciascuna di queste modalità potrebbe contenere all’interno alcune varianti. Politicamente sconsigliabile la prima, per l’eccessivo potere attribuito alla carica monocratica, si è ritenuto la seconda del tutto in contraddizione con la legge. CdA e Senato hanno competenze diverse e la Legge li tiene decisamente separati: la previsione di un’elezione da parte del Senato diviene inaccettabile proprio perché attribuisce a quest’ultimo un potere superiore e crea evidenti interferenze con un organo diverso a cui sono attribuite, appunto, funzioni e competenze diverse. In sostanza, se la volontà del legislatore è stata quella di formare una governance composta da due “camere”, appariva del tutto sconsigliabile che una “camera” fosse espressione dell’altra. Inoltre, l’obiezione in base alla quale il CdA non poteva essere un organo elettivo non sembrava valida per sostenere l’ipotesi di un’elezione da parte del Senato, visto che sempre di elezione si tratta. La seconda è che se sono elettivi i rappresentanti degli studenti (e questo lo stabilisce esplicitamente la legge) e sono elettivi – secondo la bozza proposta dall’Ufficio di presidenza – i rappresentanti del personale Tab., perché, allora, non rendere elettivi anche i docenti? La discussione sul tema ha avuto momenti particolarmente vivaci, specialmente quando sono stato messo sotto accusa per aver firmato una petizione di docenti di Roma Tre che chiedevano, in nome della democrazia, l’elezione diretta del CdA. Alla fine, si è optato per l’elezione diretta della componente dei docenti, sia pure con le perplessità di qualcuno che ha espresso timori di una bocciatura sul punto da parte del Ministero.
La questione delle aree è stato il terzo tema che ha portato via molto tempo alla Commissione. L’attuale divisione in quattro aree ha avuto forse il vantaggio di consentire l’articolazione di una migliore rappresentatività delle fasce nell’elezione del Senato, ma riproduce sofferenze manifestate spesso negli ultimi anni soprattutto da parte di certe facoltà; la soluzione a 8, fortemente appoggiata dai presidi. permette di salvaguardare continuità, identità e rappresentatività delle attuali facoltà, ma ha lo svantaggio (dati i numeri più piccoli) di rendere più difficile la rappresentatività per fasce. D’altra parte, sappiamo bene come nei sistemi elettorali la riduzione delle dimensioni dei collegi produca una minore rappresentatività delle minoranze e una maggiore selettività. Alla fine, ha prevalso una maggioranza a favore di 8 aree coincidenti con le attuali facoltà: dava più sicurezza. Il punto è stato poi parzialmente modificato dal Gruppo di lavoro del Senato, che lasciava ai regolamenti successivi la possibilità di introdurre collegi elettorali diversi dalle 8 aree. Tuttavia, nelle ultime riunioni della Commissione anche questa strada, che avrebbe consentito un minimo di flessibilità in più ad un sistema che rischia di essere troppo rigido, è stata chiusa con un voto a maggioranza.
La mobilità dei docenti si è imposta come un problema particolarmente delicato e dai numerosi risvolti. La Commissione si è convinta che occorreva conciliare e tutelare almeno due ordini di interessi: quello del singolo docente di afferire al Dipartimento che gli è scientificamente più congeniale e quello della Facoltà nella quale tale docente presta servizi didattici, che deve poter conservare la continuità didattica della materia insegnata e, nei limiti del possibile, la disponibilità del posto in organico. I pericoli che si delineano sono due: da un lato, quello di una sorta di anarchia e di mobilità incontrollata e priva di vincoli, assai rischiosa per quelle facoltà che presentano una fisionomia particolarmente multidisciplinare; dall’altro lato, c’è l’opposto rischio del congelamento dell’attuale situazione che, con profili marcatamente illiberali, chiude le porte ad ogni forma di mobilità e che addirittura costringe chi attualmente afferisce a dipartimenti esterni alla propria Facoltà di “rientrare nei ranghi”. Sulla questione, la Commissione ha constatato al suo interno un palese disaccordo e non è stata capace di andare al di là di alcune affermazioni generiche di principio nelle disposizioni transitorie (art. 50). La palla è stata così rinviata all’attuale Senato che sarà chiamato ad esprimersi quando verranno scritti i regolamenti. Questo è stato un grave errore: si sarebbero dovute scrivere alcune regole semplici e chiare (per esempio, prevedendo il parere favorevole sia della struttura a quo, sia di quella ad quem), in grado (laddove vi fossero ragioni solide e convincenti) di consentire la mobilità dei docenti. Ciò avrebbe anche conferito maggiore chiarezza e trasparenza alla discussione in corso nelle strutture circa il loro futuro.
L’ultima grave questione è stata quella delle disposizioni transitorie. Una prima versione varata in Commissione prevedeva una scadenzario temporale molto preciso: dipartimenti dopo 90 giorni dall’entrata in vigore dello Statuto, poi elezioni del Rettore, elezioni del Senato, formazione del CdA. Era stato previsto anche un comma (6, art. 50) per conferire un minimo di perentorietà a queste scadenze. L’obiettivo era di concludere la transizione in un anno dall’entrata in vigore dello Statuto. Il gruppo di lavoro del Senato ha invece cancellato ogni vincolo temporale. In sostanza, se in una prima versione erano state forse introdotte troppe scadenze, nell’articolato riscritto dall’Ufficio di Presidenza queste sono state tutte sistematicamente eliminate. Dopo molte discussioni, la Commissione, ha proposto di ripristinare un vincolo temporale almeno nella ricostruzione dei dipartimenti, con l’argomento che è nell’interesse dell’Ateneo avere una transizione seria ma rapida, in modo da arrivare a regime quanto prima. Purtroppo tale vincolo è stato il frutto di un compromesso ed è salito addirittura a 180 giorni.


Un commento finale

I lavori hanno proceduto in modo costruttivo e responsabile, anche se con qualche momento di notevole tensione. Ha prevalso, insomma, una comune volontà di non esasperare le tensioni legate alle differenze di opinione e di impostazione. Malgrado i dubbi iniziali di legittimità espressi sulla stessa composizione della Commissione, si è preferito andare avanti nei lavori in modo da non mettere l’Ateneo in difficoltà e non farlo arrivare a ridosso delle scadenze senza un testo di Statuto pronto. Grazie anche alle richieste pressanti di alcuni di noi fin dalle prime battute, il progetto di Statuto è stato sottoposto ad un minimo di vaglio e di discussione da parte dell’Ateneo.
La stesura conclusiva è frutto di un compromesso e i compromessi, si sa, pur necessari per arrivare a qualche decisione finale, non solo contengono spesso luci e ombre, ma a volte rischiano di essere il frutto di trattative un po’ anacronistiche, come quelle che hanno portato a fissare al 50% (art. 27) la quantità dei crediti formativi universitari previsti quali attività formative di base e caratterizzanti degli ordinamenti didattici dei corsi di studio che ogni nuovo Dipartimento dovrebbe mediamente coprire, secondo il progetto presentato, e a 180 giorni il limite temporale entro il quale devono essere formati i nuovi dipartimenti. In sostanza, la logica del compromesso finisce per ridurre a questioni di numeri scelte irriducibili ad una semplice dimensione quantitativa.
Malgrado che il nuovo Statuto presenti molti e importanti elementi di novità, anche in relazione alla tutela dei diritti attivi e passivi negli organi elettivi centrali e periferici, al bilancio sociale, alla valorizzazione delle pari opportunità, la mia impressione è che si è avuto poco coraggio. L’attuazione delle riforma Gelmini ha sottoposto e continuerà a sottoporre l’Ateneo ad un notevole stress interno, con dispersioni di energie e risorse. Forse, poteva essere questa l’occasione per innovare qualcosa, per attuare cambiamenti di cui si discute da anni. La sensazione che si ricava dalla conclusione dei lavori è che abbia prevalso una volontà di congelamento dell’esistente, che si siano privilegiate la stabilità, la continuità e forse anche la staticità dell’Ateneo. Forse si è dato troppo spazio a paure non sempre giustificate: paura della frammentazione delle strutture, paura della mobilità dei docenti, paura di destabilizzare l’offerta formativa, perfino paura di non riuscire a gestire gli aspetti logistici e organizzativi dell’offerta formativa. Si è preferito fare otto aree pensando alle vecchie Facoltà; si è addirittura introdotto un comma che “costituzionalizza” il nome Facoltà e decide quando e in che occasioni tale denominazione può essere utilizzata; si è anche tentato (per fortuna, senza riuscirci) di limitare ad 8 (numero magico!) le scuole e i dipartimenti non raggruppati in scuole e anche di limitare il numero dei dipartimenti (ma su questo punto nessuno si è azzardato a fare proposte perché qualsiasi numero avrebbe poi dovuto essere spiegato). Sulla mobilità dei docenti, poi, si è preferito rinviare ogni decisione ai futuri regolamenti, ma la soluzione che si profila anche qui è di stampo nettamente conservatore: se il Senato dovesse approvare regolamenti di questo tipo senza emendamenti, i docenti potrebbero venir attribuiti ai dipartimenti in cui svolgono la loro attività didattica, e ciò significherebbe che le “frontiere” sarebbero chiuse alle attuali Facoltà, se non addirittura agli attuali collegi didattici.
Insomma, la preoccupazione maggiore è stata soprattutto una: conservare, conservare, conservare, senza porsi il problema se ci fosse qualcosa da cambiare, trasformare, modificare, migliorare. Di questo non si è mai discusso. Due punti meritano poi un commento finale non incoraggiante. Il primo riguarda le disposizioni transitorie. Per disinnescare ogni vincolo temporale stabilito dalla Commissione al fine di governare con saggezza i tempi della ricostruzione delle strutture, si sono dette molte cose inesatte: che la Commissione non era competente su tali questioni (la critica sottintendeva un disappunto da parte di alcuni verso una Commissione che si allargava troppo e che sottraeva funzioni a organi – non si sa perché – “più democratici”); che, a ben guardare, neppure le disposizioni transitorie sono una competenza dello Statuto; che la ricostruzione dei dipartimenti richiede tempi lunghi che non possono essere compressi in un arco temporale così ristretto (180 giorni!). Si è così introdotto un termine lunghissimo, eccessivo, che va a sommarsi ai tempi di attesa della risposta del Ministero al testo di Statuto che gli è stato sottoposto (4 mesi): di fatto 10 mesi (ma diventeranno di più, vista l’eliminazione del comma 6 dell’art. 50, che introduceva un minimo di perentorietà) per rifare i dipartimenti (problema, peraltro, già in discussione da mesi). Un’esagerazione!
In realtà, anche se durante i lavori in Commissione non lo si è mai detto esplicitamente (adesso, però, lo si ammette), l’intento era uno solo: rimandare l’entrata a regime dell’Ateneo alla fine del 2014. E’ stato del tutto inutile ricordare che passaggi storici molto più importanti sono durati meno: la Costituzione italiana è stata fatta in un anno e mezzo e le transizioni di regime possono durare anche pochissimi mesi e questo non le rende certo meno efficaci. E che un rinvio così lungo (due anni!) è molto rischioso per Roma Tre, che non solo non può permettersi il lusso di arrivare tra gli ultimi nella realizzazione della riforma, ma che soprattutto ha bisogno prima possibile sia di strutture nuove e in piena efficienza, sia di una nuova classe dirigente. Tempi troppo lunghi ci danneggeranno e non porteranno nessun vantaggio. Peccato, si è persa un’occasione preziosa. Resta la domanda: perché due anni? Con quali obiettivi? Aspettiamo che qualcuno ce lo spieghi. Ma confidiamo anche molto nel fatto che la comunità accademica nel suo complesso saprà premere sugli organi di governo (e in particolare sul Senato) perché i tempi del passaggio al nuovo assetto dell’Ateneo non siano così lunghi.
L’ultimo commento è in realtà una constatazione amara e riguarda quella che è stata e continuerà ad essere la vera “cenerentola” del sistema universitario italiano: la ricerca. In Commissione non se ne è quasi mai parlato: la ricerca è stata la vera grande assente. Ogni volta hanno sempre predominato le preoccupazioni sulla didattica: si è voluto legare la rinascita dei dipartimenti non solo ad un progetto didattico, il che è logico, ma addirittura ad una quota percentuale (50%) dei crediti formativi previsti quali attività formative di base e caratterizzanti dagli ordinamenti didattici che in base al progetto presentato dovrebbero essere di pertinenza del dipartimento stesso. In sostanza: un dipartimento può anche avere un bellissimo progetto di ricerca, ma se non copre un certo numero di crediti non può costituirsi. Nella stessa afferenza dei docenti ai dipartimenti, il peso maggiore sarà quasi sicuramente (vedremo meglio nei regolamenti) quello dell’attività didattica, senza alcuna considerazione per gli orientamenti riguardanti la ricerca. Ancora una volta, dunque, la didattica prevale sulla ricerca: un vizio antico, duro a morire. Anche per questo, la Legge 240/2010 rischia di passare alla storia del nostro sistema universitario come un classico esempio di realizzazione di “effetti non intenzionali di azioni intenzionali”: diceva di voler rilanciare la ricerca e invece la ricerca rischia, con la complicità degli atenei, di essere definitivamente affossata. Non sarebbe davvero un bel risultato!


Post originariamente pubblicato su Roma3 Discute il giorno 7 novembre 2011

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