SONO O NON SONO CHARLIE
HEBDO?
UNA DISCUSSIONE FRA
DINO COFRANCESCO E PIETRO GRILLI DI CORTONA
Je ne
suis pas Charlie e spiego
perché, di Dino Cofrancesco
Come capita spesso, negli anni
difficili e incerti che stiamo vivendo, ogni fatto di sangue che abbia qualche
rapporto col fondamentalismo religioso, fa nascere come funghi dopo i temporali
estivi centinaia di sociologi e filosofi della religione che ci
spiegano—ovviamente spesso, ma non sempre, citando solo gli esperti in materia
di cui si fidano, tra i mille che hanno trattato il tema di cui hanno deciso di
occuparsi—come e perché la barbarie sia ricomparsa nel nostro mondo nonostante
i secoli di civiltà greco-romana, cristiana e illuministica. Siamo sempre ai
soliti ‘brevi cenni sulle origini dell’universo’. L’ultima, efferata, strage
nella redazione di Charlie Hebdo, ha dato di nuovo la stura a cori di esecrazioni, di ferme
condanne, di richiami ai grandi valori dell’Occidente calpestati da fanatici
islamisti. Un giornalista del ‘Financial Times’ si è visto quasi messo alla
porta per aver scritto un articolo che, decisamente, costituiva una nota stonata
rispetto alle voci angeliche dei benpensanti.
Non vorrei essere equivocato, anche per me il
delitto di Parigi è odioso e, se dipendesse da me, non concederei agli autori
alcuna attenuante anzi, per stragi di questo tipo, sarei quasi tentato di ripescare
dai sotterranei della storia la vecchia invenzione del dr. Guillotin
(perfezionata, come si sa, dalla sua vittima più illustre Luigi XVI).Ciò
premesso, non mi si chieda di mettermi al collo un cartello con la scritta Je suis Charlie Hebdo, giacché le vignette
oggettivamente irrispettose sul profeta e su Allah mi sono parse , detto con
franchezza, discutibili se non riprovevoli. Se un gruppo estremista facesse
saltare in aria l’aula in cui si riuniscono Robert Faurisson, David Irving e
altri negazionisti e simpatizzanti alla Noam Chomsky, sarei stato altrettanto
reciso nel condannare (e nell’esigere la pena capitale per) gli attentatori, ma
non sarei tentato di esporre un cartello con le parole I am David Irving.
La
saggezza dell’Occidente liberale sta proprio in questo, nella separazione tra
colpa (contro i ‘costumi’ vigenti in una società), peccato (contro Dio) e reato
(violazione del codice penale). Il diritto di ciascuno di scrivere o di
disegnare tutto quello che gli passa per la mente è, in linea teorica, assoluto
e indisponibile, anche se offende la morale e dispiace a Dio. Resta il fatto,
però, che come tutti gli altri diritti e come tutte le libertà, anche il
diritto di esprimersi liberamente può e deve essere limitato ogni volta che il
suo esercizio può essere di nocumento al prossimo. Il diritto di proprietà, ad
esempio, non può tradursi nel trattamento iniquo e crudele del proprio animale
né rendere lecito l’erezione di un muro di cinta, sul mio terreno, che tolga
aria e luce al vicino. La libertà di parola non può autorizzare l’oltraggio a
una religione seguita da migliaia di nostri connazionali. Se a qualcuno venisse
voglia di scrivere una commedia satirica sugli amori sodomitici tra Cristo e il
cugino Giovanni(Battista) o sui rapporti lesbici tra la figlia di Anna e Maria Maddalena,
il divieto di rappresentarla in luogo pubblico, difficilmente farebbe insorgere
folle indignate dalla repressione contro il prefetto liberticida.
Lo stato laico—l’unico in cui mi sento sicuro—può
addurre una sola giustificazione alla censura preventiva: l’alta probabilità
che l’opera censurata scateni, tra i credenti; reazioni non facilmente
controllabili e che i disordini lascino sulle piazze centinaia di vittime. I
contenuti del testo—libro, commedia, film, vignetta—di cui si impone il ritiro
dal mercato non debbono interessare minimamente le autorità. Nel chiuso delle
pareti domestiche o di un club di eccentrici, il porno-vangelo può essere
replicato ad libitum ma autorizzarne
la rappresentazione a teatro o in tv potrebbe significare venir meno ai compiti
dello Stato che, per Hobbes come per i liberali classici, deve occuparsi solo
delle ‘azioni esterne’ e delle loro probabili ricadute sulla ‘pace sociale’..
Sarebbe auspicabile, lo ammetto volentieri,
che non ci fosse alcun bisogno di censura, bastando al mantenimento della
quiete pubblica buon gusto e autocontrollo ovvero la disposizione mentale a non
superare certe soglie, in nome del rispetto per quanti condividono <l’errore
del volgo> ovvero la fede in Dio e l’ossequio alle autorità religiose.
Sennonché, nella fattispecie, come mi è stato
fatto notare da un’acuta filosofa morale: <aumenta davvero la mia libertà
poter disegnare, puta caso, una vignetta in cui il Profeta fornica con una
scrofa?>. In nome della libertà libertaria, un vignettista è autorizzato a
rivendicare anche il diritto al cattivo gusto, al sarcasmo gratuito, al
dileggio delle illusioni altrui sull’aldilà etc. Uno Stato non può entrare nel
merito dell’estetica (il cattivo gusto che rivela la vignetta) né della morale
(l’irrisione delle ‘anime devote’ che è una ‘cattiva azione’) ma non può—ribadisco—disinteressarsi delle cause
di probabile turbamento dei rapporti sociali.
Personalmente, ho molte riserve sulle ‘società
multiculturali’, ritengo la ‘tolleranza’ e il dialogo tra le culture mera e, in
molti casi, insopportabile retorica buonista. La rimozione dei crocifissi dalle
scuole, pur non essendo un credente, m’indigna perché il simbolo della Croce
rinvia a una nostra identità culturale profonda—quella cui accennava Benedetto
Croce in Perché non possiamo non dirci
cristiani; se fossi direttore di una struttura scolastica metterei alla
porta i genitori non cristiani che mi chiedessero di rinunciare al presepio e
all’albero di Natale; e, infine, se vivessi in California insorgerei contro gli
ispano-americani che nei programmi scolastici vorrebbero eliminare lo studio
della grande letteratura inglese ed europea, perché profondamente estranea al
loro vissuto storico. La via scelta dall’Europa, però, non sembra essere la
difesa intransigente delle proprie radici ma l’apertura alle più diverse
culture: è una via difficile--e ,forse, intimamente cristiana e bergogliesca--
ma che comporta un ripensamento (sia pure relativo) di gran parte della nostra
vita di relazione, delle sfere di liceità, dell’elenco delle cose permesse e di
quelle vietate o per lo meno ‘inopportune’. Non si può sbandierare il
multiculturalismo solo come ariete contro le mura del mondo borghese—per
choccare i ‘benpensanti’ mostrando come i loro ‘valori’ non siano affatto gli
unici né i migliori-- e poi mollarlo quando non torna più comodo; non si può
invitare ogni cinque minuti al dialogo e alla reciproca comprensione tra le
diverse etnie e poi restare indifferenti quando vengono offese nelle loro
identità religiose più intime. Se giustamente non consentiamo alle donne arabe
e maghrebine, in luogo pubblico, il burqa integrale e togliamo all’autorità
paterna il potere tribale su figli e, soprattutto, figlie (ma nella civilissima
Olanda ci sono stati tribunali disposti a riconoscere, senza vergogna, la sharia, e questo nella patria di Grozio,
di Erasmo, di Spinoza!), non dovrebbe essere equo, in compenso, tutelare le
minoranze religiose islamiche limitando (almeno per un certo tempo) le libertà
di espressione di vignettisti incoscienti e facendo valere l’etica della
responsabilità ovvero delle conseguenze alle quali va incontro un agire non
ponderato?
Quando si leggono parole vibranti di
indignazione come <e ora non ci si venga a dire che i vignettisti di Charlie
Hebdo se la sono cercata> si rimane molto perplessi giacché un conto è la
condanna più inflessibile dei loro assassini (ai quali, per la gravità del
gesto, non si può concedere alcuna attenuante), un conto ben diverso è riconoscere
che una ‘provocazione’ oggettivamente c’è stata—anche se, in una società aperta
senza problemi di forti minoranze
culturali, la provocazione è, semmai, un’offesa al buon gusto ma non
una violazione della legge. Indigna il commento di un noto e spregiudicato
leader democristiano che commentò la notizia dell’omicidio di chi aveva
denunciato loschi affari bancari, con una battuta vergognosa: <se l’è
cercata!>, ma non può scandalizzare l’osservazione di buon senso dell’uomo
della strada: <ma perché quelli di Charles Hebdo hanno dovuto irritare una
minoranza religiosa particolarmente suscettibile?>. I killer di Ambrosoli
hanno ucciso un uomo che aveva il ‘senso dello Stato’ e si batteva contro
pericolosi malfattori protetti dalla classe politica, i killer algerini hanno
spedito nel mondo dei più dei giornalisti fermamente intenzionati, avvalendosi
dei loro ‘diritti soggettivi’, a disegnare le loro vignette satiriche a costo
di offendere non solo i loro spietati esecutori ma anche tutti quegli islamici
miti e perbene, che come noi, esecrano la violenza ma si dolgono—appartenendo,
appunto, ad un’altra cultura che non tollera la satira su certi temi—della
mancanza di rispetto per la loro religione. (il mio simpatico verduraio
marocchino, pur sconvolto come me dai fatti di Parigi, mi faceva rilevare, con accenti dolenti, che
nel mondo musulmano nessuno si permetterebbe di offendere i simboli cristiani).
L’ideologia dell’ospitalità indiscriminata per
tutti gli extracomunitari non è nelle mie corde ma una volta che milioni di
maomettani sono stati accolti in Europa sicché possono circolare liberamente in
lungo e in largo, non si è poi obbligati a difendere gli autori di satire
irriverenti dal risentimento dei fedeli scandalizzati dalla loro empietà? E
tale difesa non comporta costi spaventosi a cominciare da un reclutamento di
vigili e poliziotti, addetti alla protezione dei ‘liberi pensatori’, cinquanta,
cento volte superiore a quello attuale? Vogliamo instaurare (paradossalmente)
uno stato di polizia per fronteggiare la criminalità religiosa? O, per evitare
tutto questo, pensiamo di sradicare e secolarizzare a colpi di frusta (e
non solo simbolica) quanti non accettano il principio che il diritto deve
proteggere sia chi ci piace sia chi non ci piace?
Separare l’etica dalla politica, dal diritto,
dalla religione non è possibile, per i non occidentali, almeno nel breve arco
di poche generazioni--e per molti
occidentali è difficile anche oggi. E allora cosa resta da fare se non
rispolverare, togliendola dagli armadi della storia, la <civiltà delle buone
maniere>? Mi riferisco, ovviamente a quel tanto disprezzato galateo borghese
che impediva di <parlare di corda in casa dell’impiccato> e che ancora
adesso ci rende antipatico, in un tour turistico, il compagno di viaggio ateo
che vuol convincere quello credente che l’aldilà è una frottola inventata dai
preti per i gonzi come lui.
La nostra comunità politica è come una
comitiva allargata in cammino verso il futuro: forse sarebbe stato meglio non far salire a
bordo tante persone così diverse da noi ma ora che ci sono dobbiamo
‘contenerci’, autocensurarci, abituarci a non esternare le nostre opinioni
quando sappiamo con certezza che esse possono ferire i nostri vicini e
determinare risentimenti rabbiosi. La libertà liberale non è la libertà
libertaria, non segue il principio fiat
ius, pereat mundus (il che significa che se ho voglia di scrivere che
Maometto era un farabutto sanguinario nessuno me lo può impedire: faccio quel
che mi sento di fare e avvenga quel che
può) ma guarda alla concretezza delle relazioni sociali, è flessibile e
realistica, sposta sempre più in là i confini del lecito ma non abbatte tutti i
recinti per consentire ai nostri istinti di scorrazzare negli spazi infiniti
della prateria sociale. Il consequenzialismo razionalistico—che ama la teoria
del piano inclinato: se si fa un passo indietro oggi, non si sa dove finiremo
per trovarci domani-- è libertario non liberale e ne costituisce una riprova
convincente il fatto che i libertari, che preferiscono da qualche tempo
definirsi liberali, sempre delle ombre, delle ‘contraddizioni’ nei liberali
classici, accusati di <fermarsi a un certo punto> e di non avere il
coraggio di andare oltre. Sennonché quel sapersi <fermare a un certo
punto> è proprio il segno inequivocabile del loro liberalismo non taroccato
dei Padri Fondatori della società aperta—un liberalismo,va aggiunto, spesso
unito alla consapevolezza che altre generazioni, semmai, andranno oltre….
C’è un tormentone che ritorna in questi giorni
e ci rintronerà a lungo nelle orecchie:< La violenza è iscritta nel DNA
della legge coranica?> e, ancora, <potrà mai accettare l’Islam le regole
della democrazia liberale?>. Domande inutili giacché non esiste l’Islam ma
esistono gli islamici, appartenenti a popoli diversi tra loro, che nella storia
passata hanno creato grandissime civiltà (Cordoba, Granada, Baghdad, Damasco
etc.. ) e, al presente, annoverano tra le loro file, minoranze sanguinarie e
spietate come Boko Haram. Chi interpreta più fedelmente il Corano, i
discendenti di Avicenna e di Averroè, <che
‘l gran Comento feo> o l’Isis che intende restaurare il Grande Califfato,
massacrando—è cronaca recente—duemila nigeriani? E’ come chiedersi se sia più
fedele a Pietro l’Inquisizione o la famiglia francescana. In realtà, sono le
istituzioni che incanalano passioni e credenze religiose o semplicemente
ideologiche in una direzione piuttosto che in un’altra. Le istituzioni sono un
filtro che trattiene solo i materiali spirituali che ritengono utili ai loro
fini, lasciando defluire (e perdersi) le scorie inservibili. E’ a cose fatte
che si vede se una fede (trascendente o immanente) ha contribuito, e in quale
misura, a fondare una convivenza abbastanza civile e sopportabile. I rapporti
tra ‘pensiero’ e ‘azione’ non sono così evidenti e decifrabili come si pensa.
Lungi dal portare acqua al mulino buonista,
queste brevi considerazioni vogliono essere proprio il contrario, un invito al
realismo e alla lucidità. Il ‘politicamente corretto’ ha fatto già tanti guai
all’Europa e dopo i fatti di Parigi sarebbe meglio metterlo definitivamente in
soffitta. Nel nostro paese, per tanto tempo, esso impedì di chiamare
‘comunisti’ i combattenti delle brigate rosse, oggi mette al bando--<ce lo
chiede l’Europa>-- l’espressione <terroristi islamici>, nel tentativo
di convincerci che quanti fanno saltare o si fanno saltare in aria al grido di
<Allah u Akbar!> bestemmiano il Grande Misericordioso perché ‘Il Corano’ condanna
ogni tipo di violenza. Si dimentica, forse, che ridurre a esaltati dementi i
propri nemici irriducibili significa ripercorrere le vie dei regimi totalitari
che non riuscivano a riconoscere agli oppositori alcuna dignità etico-politica
ma ne degradavano l’ideologia a malattia mentale.
Islamici sono sia i credenti che chiamiamo
‘moderati’ sia i credenti che vorremmo vedere condannati a pene esemplari: forse
abbiamo avuto il compito di stabilire
chi ha diritto a fregiarsi del nome ‘musulmano’ e chi non lo ha? Probabilmente,
ma qui mi avventuro in campi che non sono di mia competenza, hanno ragione gli
uni e gli altri, in quanto entrambi si rifanno a diverse tradizioni e
interpretazioni della parola divina, delle quali, non avendo la linea diretta
con l’Onnipotente, ci è impossibile individuare quella ‘autorizzata’ dall’alto.
Del resto, nella stessa religione cristiana, c’è il santo che< negli sterpi eretici percosse> e c’è
l’altro che operò <tutto serafico in
ardore>. Erano più in linea con gli insegnamenti della Santa Madre
Chiesa Cattolica Romana Apostolica gli sterminatori degli Albigesi o i
fraticelli che parlavano agli uccelli e ammansivano i lupi d’Agobbio? Il fatto
che ci siano più simpatici e congeniali i secondi non ci conferisce certo la
qualifica di teologi né a dare patenti di ortodossia. In ogni caso, per noi
comuni cittadini, contano i comportamenti civici, il rispetto delle regole, la
disposizione a ‘integrarsi’: le motivazioni ideali che ispirano quei
comportamenti non sono affar nostro.
Non esito a credere che l’interiorizzazione
dei principi che stanno a fondamento della democrazia liberale sia più
difficile per gli islamici di quanto non lo sia stata per i cristiani. La
ragione, però, a mio avviso, sta in un
contesto storico che anche per il mondo musulmano conferma la crucialità dal fattore istituzionale: nel mondo maomettano,
la comunità dei credenti non era un contropotere , come in Occidente la
Chiesa, ma la fonte sacra della legittimità politica, la base sociale di una
vera e propria democrazia religiosa: è mancato, al di là del Mediterraneo, lo stato
laico in grado di imporre la sua autorità contenendo le pretese della religione
e garantendo un ordine ‘esterno’ al riparo dalle sue pretese egemoniche. La secolarizzazione
politica—ovvero l’emancipazione del potere laico da quello religioso, in virtù
di un’interpretazione dubbia del <date
a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio>-- è stata la
matrice dell’individualismo dei moderni e dall’ individualismo dei moderni sono
nate le libertà civili e quelle politiche. Nell’importante film Il destino (1997) dell’egiziano Yusuf Shahin,
il califfo di Cordoba al Mansour non riesce a salvare, nel 1195, dalla ferocia
delle masse fondamentaliste il filosofo Averroè accusato di empietà: se il
grande al Mansour avesse avuto il potere lasciato da Richelieu a Luigi XIV, il musulmano
Averroè non sarebbe fuggito in Egitto ma avrebbe fondato l’Accademia delle
Scienze Al-Andalus.
Dino Cofrancesco
9 gennaio 2015
Risposta a Dino Cofrancesco da Pietro Grilli di Cortona
Caro Dino,
concordo su molte
tue affermazioni, meno su altre. Non ho quasi mai condiviso le vignette
satiriche di Charlie Hebdo e ho espresso questa mia convinzione ignorando la
rivista e non comprandola. Non ho però
neanche mai condiviso la persecuzione dei reati di opinione, sia che si
trattasse di David Irving e dei negazionisti, sia di quelle frange di invasati
che continuano ad adorare Stalin o Hitler e che ogni tanto celebrano perfino
dei congressi e dispensano interviste. Il mondo è pieno di "folli frange
marginali" (come le chiamava Almond), di pazzoidi, provocatori, gente alla
ricerca di visibilità attraverso la strategia di chi la spara più grossa
(ricordi le teorie cospirative sull'attacco alle torri gemelle?). Preferisco di
gran lunga uno Stato che ignora e tollera queste manifestazioni di idee (con
tutti i limiti del caso, ovviamente, stabiliti dal codice penale) rispetto a uno
Stato che si assume il compito (sempre arbitrario) di perseguire pazzi,
estremisti e provocatori sulla base di principi di etica e di buon gusto: chi
decide chi è pazzo e provocatore? E siamo sicuri che il buon gusto debba essere
tutelato da un'autorità politica? Questo è il punto. Tra l'altro, la rivista ha
pubblicato in passato vignette offensive verso il cristianesimo (alcune, devo
dire, di pessimo gusto) e nessuno, in nome dello Stato laico (nel quale anch'io
mi sento più a mio agio), si è mai sognato di denunciarli o perseguitarli. Al
massimo, qualche vescovo ha espresso (peraltro, del tutto legittimamente)
condanna e indignazione. E, devo dire,
anche in questi casi estremi un sorriso la satira lo può sempre strappare, sarà
forse perché sono fiorentino…
Anch'io sono
sempre stato contrario al multiculturalismo: l'idea di una società a
compartimenti stagni, in cui ogni comunità vive secondo i suoi valori, la sua
cultura e le sue norme è un progetto ormai fallito (e bene fece Sartori a
rilevarlo anni fa), in cui continuano a credere solo quegli ingenui che pensano
che più ci si frequenta e ci si conosce e più si diventa amici e ci si vuole
bene: purtroppo, come scriveva Waltz, spesso è esattamente il contrario e più
ci si conosce, più si diventa incompatibili. Non ritengo si debba essere contro
o a favore dell'immigrazione. L'immigrazione c'è, è come un qualsiasi evento
meteorologico, non la possiamo evitare e secondo me non la possiamo neanche
"governare" (come fai quando arrivano a migliaia, spesso privi di
documenti?). E' causata da fattori che noi non controlliamo: la
globalizzazione, la crescita di consapevolezza delle popolazioni dei paesi in
via di sviluppo, il movimento dei rifugiati, lo sviluppo delle comunicazioni,
le differenze fra paesi ricchi e poveri, il fatto che da noi nessuno vuole più
svolgere certi lavori (anch'io ho un verduraio egiziano e ben pochi italiani,
ormai, sarebbero più disposti a fare la vita che fa lui, alzandosi tutte le
mattine alle 04,00 per prendere la merce ai mercati e tenere il negozio aperto
fino alle 21,00). Tuttavia, ritengo che chi emigra in un paese, deve accettarne
le norme e i valori. Fino ad un certo punto possiamo e dobbiamo aiutarlo a
integrarsi: costruiamogli pure qualche Moschea, diamogli pure (dopo un po' di
anni e in presenza di certe garanzie) la cittadinanza, ma non possiamo certo
consentirgli la poligamia o di trattare le donne come esseri inferiori, perché
questo va contro la nostra tradizione giuridica, etica e culturale. E non possiamo neanche rinunciare alle nostre
tradizioni di libertà (che peraltro noi stessi troppo spesso mettiamo in dubbio
e in pericolo, ma questo è un altro discorso). Alcuni limiti sono invalicabili.
E mi stupisco che tu condivida l'idea
che nei paesi islamici non si offendano mai i valori della cristianità. Non è
vero: la tolleranza verso gli islamici in Occidente non è neanche paragonabile
alla tolleranza verso i cristiani nei paesi musulmani, neanche in Turchia, che
pure è ancora (non so per quanto) uno dei paesi islamici più secolarizzati. Gli
occidentali, anziché continuare a fustigarsi e a vivere un permanente senso di
auto-colpevolizzazione verso tutti gli altri popoli, dovrebbero andare
orgogliosi dei valori che hanno contribuito a diffondere e ricordarsi un po'
più spesso che i cristiani sono, in questa fase storica, i più perseguitati nel
mondo.
Resto convinto
che se un islamico va a vivere in Francia, deve imparare a sopportare anche
riviste come Charlie Hebdo (mi pare che concordi con me). Non sta a lui
dettarci nuove regole e una nuova agenda su ciò che è lecito e illecito. E' per
questo che, dopo l'odioso attentato di Parigi, pur non avendo - come te -
niente a che vedere con la rivista, non ho nessuna remora (al contrario di te) ad
attaccarmi al collo il cartello "Je suis Charlie Hebdo". Perché
dobbiamo esprimere tolleranza e comprensione verso chi offende i valori
cristiani e cattolici e autocensurarci, invece, quando si prende in giro il
Profeta? Per il resto concordo con te: un po' di autocensura, di senso del
limite, di sensibilità e (perché no?) anche di rispetto per i valori degli
altri sarebbero auspicabili sempre, ma guai affidare allo Stato la tutela di
questi principi! Sia chiaro, so bene che questa è una deriva che ormai in
Occidente si è imboccata da tempo, e non certo per colpa degli islamici.
Considero, infatti, una iattura il reato di razzismo, così come quello di
negazionismo di ogni ordine e grado (in Francia esiste perfino a proposito
della strage degli armeni…). Per me mandare in galera qualcuno, perché ha
espresso un'opinione che non danneggia nessuno, è pericoloso perché non si sa
dove si va a finire.
Un'ultima
osservazione che vuole essere un invito e un auspicio. Evitiamo l'uso (e
soprattutto l'abuso) del concetto di provocazione: può essere utilizzato (e in
passato è stato fatto molto spesso) contro qualsiasi manifestazione di idee
contrarie alle nostre. E non mi piace.
Ah, dimenticavo:
il mio verduraio egiziano ha esposto fuori dal negozio un cartello con scritto
"Je suis Charlie Hebdo", anche in lingua araba. Gli ho fatto i
complimenti.
Pietro Grilli di
Cortona
10 gennaio 2015
Replica
di Dino Cofrancesco a Pietro Grilli di Cortona
Carissimo Pietro,
ti sono davvero molto, molto, grato
per l’attenta lettura e le pertinenti osservazioni. Su molte cose, vedo, siamo
d’accordo ma sulle altre il disaccordo è forse minore di quel che pensi. Non ho
mai scritto che <il buon gusto debba essere tutelato da un’autorità
politica>, ritengo, però, che allo stato incomba il compito di tutelare
l’ordine pubblico ovvero le ‘azioni esterne’, per dirla coi vecchi liberali.
L’etica, l’estetica, la religione non sono (non debbono essere), pertanto, di
sua pertinenza se non nella misura in cui possono produrre reazioni incomposte
e potenzialmente violente da parte di gruppi che si sentano colpiti da un
testo, da un disegno, da una pièce teatrale. Prima del ‘diritto’ c’è lo Stato:
senza il Leviatano di Hobbes, il Saggio sul governo civile di Locke
diventa una predica buonista. La mia filosofia liberale si ispira alla
ragionevolezza, alla transazione, al buon senso non al principio del
consequenziarismo razionalistico fiat
justitia, pereat mundus. Se perisce il mondo, che ce ne facciamo della
giustizia? Lo so, è un rilievo da Sancho Panza ma non sono stato io a creare l’universo
fisico e a modellare la natura umana.
I diritti di libertà—soprattutto quelli di
stampa e di espressione—sono assoluti e non disponibili ma il loro esercizio, a mio avviso, può venire per
un certo tempo sospeso se dà luogo a disordini che mettano a dura prova la
convivenza civile. Del resto, è un esempio fatto altre volte, il mio diritto a
tenere la luce accesa e a spalancare le finestre nelle calde notti d’estate, se
c’è il coprifuoco resta intatto ma non può venire esercitato durante
un’incursione aerea. Il divieto—su questo sono intransigente—può venire solo
dal potere politico non da quello giudiziario giacché ne va di mezzo la
sopravvivenza della comunità non il riconoscimento dei diritti al suo interno.
Le società europee, per una serie complessa di
ragioni che tu sintetizzi assai bene, si è riempita di gente proveniente dal
mondo islamico. Su alcuni principi—non solo la poligamia—occorre essere fermi e
intransigenti ricordando che ci si deve ben guardare dal propter vitam vivendi perdere causas ma su altri dovremmo venire
incontro a quanti hanno visioni del mondo assai diverse dalla nostra. Vietiamo
il burqa integrale, stigmatizziamo i
giudici olandesi autori della sentenza oscena che sottometteva una giovane
musulmana alla sharia, non riconosciamo alcun diritto a interferire, nelle
scuole pubbliche, con le nostre scelte simboliche (crocifisso, presepe etc.), esigiamo
l’apprendimento della nostra lingua e della nostra cultura ma, almeno, non
schiacciamoli sotto il dileggio della loro religione (per me alquanto primitiva
e barbarica ma posso sbagliare) e mostriamoci nei suoi confronti rispettosi.
E’ vero quello che scrivi:< la
tolleranza verso gli islamici in Occidente non è neanche paragonabile alla
tolleranza verso i cristiani nei paesi musulmani>. Però qui c’è un equivoco:
molti paesi musulmani non tollerano chiese nel loro territorio ma non fare
entrare qualcuno a casa nostra è ben diverso dall’oltraggiarlo, dal
ridicolizzarlo, dallo sbeffeggiarlo, da farlo sentire un subumano, contento di
morire in battaglia perché lassù lo aspettano le Uri. Nell’ostilità c’è
rispetto, nella satira religiosa c’è disprezzo e, spesso, un malcelato
complesso di superiorità (culturale se non razziale)
Se fosse dipeso da me, avrei senz’altro
seguito i consigli del cardinale Biffi—di dare il visto d’ingresso nel nostro paese
solo agli extracomunitari cristiani e, aggiungo io, induisti-- ma ora che le
cateratte si sono aperte è consigliabile la limitazione del danno, ovvero il
venirsi incontro delle etnie culturali, che si trovano sulla stessa barca,
quanto più è possibile, rinunciando a esercitare gli stessi diritti che
sarebbero innocui nelle società scandinave di quarant’anni fa.. Del resto,
quale ‘autorità pubblica’ è disposta , anche oggi, a dare il nulla osta alla rappresentazione della
tragedia di Voltaire, Le fanatisme,
ou Mahomet le prophète (1736): a nessuno certo s’impedisce di metterla in
scena in famiglia o al club, ma non al Piccolo o alla Pergola dove sarebbe
fonte di disordini.
< Per il resto—scrivi-- concordo con
te: un po' di autocensura, di senso del limite, di sensibilità e (perché no?)
anche di rispetto per i valori degli altri sarebbero auspicabili, ma guai
affidare allo Stato la tutela di questi principi!>. E perché no? Non sono i
governi, le prefetture, le questure, il Ministero degli Interni gli organi che
hanno il compito di vigilare contro i disordini? Dovremmo, forse, aspettare il
pronunciamento dei giudici (dei nostri
giudici)? Certo la discrezionalità nell’esercizio delle funzioni di governo può
portare a gravi manomissioni della libertà dei cittadini ma per sanzionare gli
arbitri del potere esecutivo—quando non violano principi iscritti nelle
costituzioni-- non abbiamo inventato l’urna e il voto? Se non si concede il
visto d’ingresso a persone sospette e segnalate, per varie ragioni, dalle
polizie dei paesi d’origine o dai nostri consolati, non si vieta alcun diritto--anche
se a ritenere il contrario restano Luigi Ferrajoli, Stefano Rodotà e la
Comunità di Sant’Egidio.
Ci sono sfilate, manifestazioni, sit in, concerti all’aperto, raduni di
tifoserie, che non ottengono l’autorizzazione a tenersi--soprattutto nelle
piazze e nelle vie centrali delle nostre città--da parte delle autorità
competenti che temono disordini e scontri: quelle autorità non entrano nel
merito delle rivendicazioni, non s’interessano ai valori che le ispirano, sanno
soltanto che hanno il compito istituzionale di evitare guai e disagi. Se tale compito
male interpretassero, lo ripeto, la stampa libera , la sollevazione
dell’opinione pubblica, le elezioni politiche, ne trarrebbero le conseguenze.
Ora, detto papale papale, non si
poteva invitare Charlie Hebdo a rinunciare a vignette porno-coraniche e a
sfogare in modi meno irritanti la propria allergia (confesso da me condivisa)
alle idee e ai costumi musulmani? Una società multiculturale e liberale, come
quella statunitense, non ha condiviso affatto la retorica francese ed europea
della libertà d’espressione assoluta, illimitata, senza se e senza ma. L’hanno coltivata intensamente, invece, i
paesi che hanno dato al mondo il terrore giacobino, il fascismo, il nazismo il
comunismo e che pretendono ora di dare lezioni di liberalismo al mondo con lo
stesso intransigentismo fondamentalista che aveva prodotto tutti quegli orrori.
Ho sempre ritenuto, caro Pietro, che il Padre nobile della società aperta sia
David Hume che alla ragionevolezza e all’esperienza e non all’illuministico Verstand affidava la soluzione (sempre
provvisoria e perfezionabile) dei conflitti sociali.
Dino Cofrancesco
10 gennaio 2015